Il 2 maggio si è celebrata la Giornata Mondiale del Tonno, ovvero del pesce in assoluto più consumato dalla popolazione mondiale, in quanto ricco di nutrienti (omega-3, B12, ferro e potassio), povero di grassi ed economicamente accessibile.
Oltre al suo gusto delicato e alla sua facile adattabilità ad ogni tipo di preparazione, il tonno è così tanto amato dalla popolazione mondiale perché il suo consumo è estremamente «comodo»: questo pesce, infatti, viene commercializzato e consumato principalmente in scatola, e questo è un modo di conservazione che ci consente di avere un prodotto invariato nei valori nutrizionali. Per dare un’idea, la produzione delle conserve di tonno in Italia, ha un valore di mercato pari a 1,4 miliardi di euro (Fonte: Associazione Nazionale dei Conservieri Ittici e delle Tonnare), per un consumo pari a 2,5 kg pro capite.
Proprio perché il tonno, soprattutto in scatola, è un prodotto largamente consumato dalla popolazione mondiale, per stare al passo con la domanda sempre crescente, negli ultimi 60 anni la sua cattura è aumentata addirittura del 1000% (Fonte: Fisheries Research), tanto che ad oggi possiamo tranquillamente parlare di “pesca intensiva del tonno”, che, come immaginabile, sta avendo un effetto devastante sulla specie e sull’ecosistema marino. Proprio perché annualmente sono 6 milioni le tonnellate di tonno pescate, questo pesce è stato classificato come “specie in pericolo di estinzione”, iscritta all’elenco dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura.
In primo luogo, certamente il modo in cui questo pesce viene pescato: nella maggior parte dei casi, per velocizzare e massimizzare la cattura di pesce, sono impiegate le grandi “reti a strascico”, le quali, essendo letteralmente trascinate sul fondo del mare, raccolgono in modo non selettivo tutto ciò che trovano sul loro cammino. Da questo nasce il fenomeno del bycatch, ovvero della cattura accidentale di altre specie marine, come gli squali e le tartarughe, che spesso non essendo idonei alla commercializzazione, vengono rigettati in mare – spesso già morti. Ecco quindi che la pesca intensiva di tonno contribuisce non solo all’estinzione di questa specie, ma anche alla distruzione dei fondali e dell’intera biodiversità marina. Infatti, non è un caso che sia gli squali che le tartarughe siano a rischio estinzione.
Quanto appena detto, deve farci capire come la certificazione “Dolphin Save”, spesso ottenute dai marchi produttori di tonno, siano profondamente fallaci ed inutili: la cattura accidentale non riguarda solamente i delfini, ma, come detto, molte altre specie marine. Nonostante tale certificazione abbia concorso alla riduzione della mortalità dei delfini, non è idonea non solo a ridurre il fenomeno del bycatch verso le altre specie marine, ma anche a garantirci un prodotto ittico che sia davvero “sostenibile” e rispettoso dell’ecosistema marino.
In secondo luogo, altro problema connesso al consumo di questo pesce, è il modo in cui nella maggior parte dei casi questo viene allevato. Proprio perché la domanda di questo pesce è sempre crescente e in natura inizia a scarseggiare, il tonno viene ormai quasi interamente allevato intensivamente. Gli allevamenti ittici, se possibile, probabilmente sono ancora più crudeli, inquinanti e insalubri degli allevamenti intensivi di terra. Vediamo insieme perché.
I pesci allevati sono costretti in “gabbie marine” sovraffollate, dove nuotano tra tonnellate di escrementi e residui di medicinali che vengono loro somministrati. Annualmente il quantitativo di escrementi prodotti da questi pesci allevati, è pari a 500mila tonnellate – un numero enorme, dettato dall’alimentazione vegetale forzatamente imposta a questi animali che, ovviamente, in natura si ciberebbero di altri pesci e non di mais o soia. All’interno di questi escrementi, troviamo anche residui di antibiotici che vengono periodicamente somministrati agli animali per scongiurare gli attacchi di pidocchi e il pericolo di epidemie – che, in realtà, è molto alto, date le condizioni inumane in cui questi pesci vivono. Addirittura a questi animali vengono somministrati anche antidepressivi, per evitare che i pesci depressi possano smettere di mangiare e morire. Come possiamo immaginare, sia gli escrementi sia questi residui di medicinali non restano confinati nei luoghi di allevamento, ma vengono sparsi oltre, cioè in mare aperto. Anche questo contribuisce all’inquinamento dei nostri mari.
Alla luce di quanto detto, dunque, capiamo come il tonno non sia più “il buon pesce sano” che il marketing vuole venderci, ma una tipologia di pesce che l’uomo ha reso estremamente problematica e insostenibile, perché pescato o allevato intensivamente.
Non bisogna nemmeno dimenticarsi di come l’inquinamento dei mari stia incidendo sulla qualità di questo pesce (ma, in realtà, di tutti quelli che consumiamo): recenti sono gli studi che hanno dimostrato come il tonno sia contaminato da metalli pesanti, come mercurio e arsenico, e microplastiche, le quali sono ormai una costante nello stomaco dei pesci. Tutte queste sostanze estremamente nocive vengono da noi ingerite, tramite il consumo di pesce, e questo costituisce un altro validissimo motivo per passare ad una dieta plant-based.