“Entrate in quello spazio. Il mio è un invito deciso. Vi scrivo, vi parlo, da un luogo ai margini, un luogo dove io sono diversa, dove vedo le cose in modo differente. Sto parlando di ciò che vedo. […] Il mio è un invito deciso. Un messaggio da quello spazio al margine, che è un luogo di creatività e di potere, spazio inclusivo, in cui ritroviamo noi stessi e agiamo con solidarietà, per cancellare la categoria colonizzato/colonizzatore. Marginalità come luogo di resistenza. Entrate in quello spazio. Vi accoglieremo come liberatori. ”
Bell Hooks – Elogio del margine 1998, Feltrinelli, Italia
Originariamente il termine favela indicava un arbusto spinoso tipico del Sertao, una regione arida e desertica dello stato brasiliano di Bahia. L’uso moderno del termine nacque perché alla fine del XIX secolo Bahia fu investita da una grande carestia che portò ad una rivolta trasformatasi in breve tempo in guerra. Antônio Conselheiro, predicatore mistico, radunò una folla di seguaci, gli jagunços, e si stabilì a Canudos, venendo adorato come santo. La comunità di Conselheiro era fortemente indipendente e non riconosceva il governo federale rifiutandosi di pagare le tasse; a causa dell’insofferenza degli jagunços verso le autorità, la città fu attaccata ripetutamente, venendo conquistata e rasa al suolo nel 1897.
Il 22 settembre 1897, la vera data triste per Canudos: muore Antônio Conselheiro. Gli ex soldati reduci della sanguinosa guerra, poiché il governo non diede loro delle abitazioni in cui vivere, occuparono un terreno collinare libero presso Rio de Janeiro. Questa collina, chiamata in precedenza Morro da Providência, fu da loro denominata Morro da Favela come la pianta che cresceva a Canudos, sede del principale accampamento durante la guerra.
In principio le costruzioni furono pensate come rifugi, edificate con materiali trovati casualmente e senza una pianificazione urbana. La vera e propria occupazione del Morro da Favela iniziò 5 anni più tardi, quando il sindaco Pereira Passos decise di demolire 1.600 edifici per ottenere un grande spazio aperto, destinato alle riforme urbane. Espulsi dalla loro casa, molti dei residenti di queste aree seguirono l’esempio dei soldati e si stabilirono sulle colline di Rio. Le costruzioni nella favela hanno una propria dinamica sociale, non si fermano mai: strade come labirinti che cambiano in base alle costruzioni, senza seguire un vero e proprio piano.
Nonostante la bellezza della presenza di culture e tradizioni differenti e la loro interazione, purtroppo sotto molti aspetti il Brasile presenta fenomeni di razzismo che rappresentano il triste risultato del rapporto tra colonizzatori, schiavi e popolazione locale.
Tutto ciò ha fatto in modo che le città brasiliane si presentassero come agglomerati frammentati, caotici, insicuri, poveri di servizi e di infrastrutture pubbliche: la metropoli è diventata un incubatore di gente povera, e la sua espansione ne genera sempre di nuova. Questo processo è incentivato dall’interesse delle municipalità che puntano a “modernizzare” le città con nuovi interventi piuttosto che preservare e migliorare ciò che già esiste ( Tarsi E., Favelas. Il Brasile della città informale tra esclusione e partecipazione, Firenze 2014, Editpress).
Emerge così una doppia faccia della città brasiliana, da un lato zone residenziali con palazzi di lusso, dotate di servizi e di sistemi di controllo e sicurezza, dall’altra quartieri immersi nella povertà e nel degrado.
La forte urbanizzazione del territorio ha contribuito a far sì che questo dislivello sociale diventasse sempre più netto e ciò ha determinato la nascita informale e illegale di insediamenti abitati dalla classe povera, senza seguire leggi municipali o statali, ma semplicemente secondo “regole non scritte e non ufficiali”.
Infatti, nel campo della nascita degli agglomerati informali, si può notare che il primo passo è l’occupazione del suolo, che può essere spontanea o mediata dalle autorità municipali, e può riguardare un’area urbana vuota, o edifici abbandonati. I suoli sono occupati in modo differente: nel caso di terreni privati, l’occupazione abusiva ha come seguito uno sgombero forzato, per la tutela della proprietà privata; nel caso di suoli pubblici (terreni per infrastrutture, zone a rischio sismico o idrogeologico, aree a basso valore di mercato) gli occupanti si stabiliscono in maniera permanente, organizzandosi con contratti di compravendita e di proprietà non legali.
Il secondo passo nella crescita di questi agglomerati urbani è l’autocostruzione: gli abitanti diventano essi stessi architetti e operai della propria casa. Le costruzioni realizzate in un primo tempo subiscono poi, nella maggior parte dei casi, un’evoluzione: gli edifici si sviluppano in altezza o in larghezza a seconda delle specifiche esigenze della famiglia che cresce, secondo quello che possiamo definire il “ciclo dell’abitazione informale”.
I materiali utilizzati sono soprattutto quelli di scarto oppure i più economici, come il legno. In un secondo momento se la famiglia è in grado di sostenere una spesa maggiore si passa a materiali più pesanti, come il mattone e il cemento; questi materiali non comportano comunque un miglioramento delle prestazioni costruttive o ambientali, ma diventano il simbolo di un nuovo status economico raggiunto da quella determinata famiglia.
Infatti uno dei pilastri su cui si regge l’economia informale è il mercato immobiliare che segue delle regole ovviamente non ufficiali e scritte ma che si basano sullo stesso procedimento di quelle formali, fenomeno che mostra come la favela aspira al modello della città. (Tarsi, 2014, 69-73)