Tra fine ottobre e inizio novembre scorsi, come molti di voi ricorderanno, si è tenuta la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26) nella città di Glasgow. Gli obiettivi prefissati e discussi in quella sede sono stati molti e riflettono le molteplici cause e conseguenze del cambiamento climatico. Fra questi troviamo la volontà di azzerare le emissioni nette a livello globale entro il 2050 e limitare l’aumento delle temperature a 1,5° C; salvaguardare le comunità e gli habitat naturali; mobilitare adeguati finanziamenti a supporto di questi obiettivi e creare una rete di collaborazione tra governi, imprese e società civile. Durante la COP26, mentre i leader politici di 196 paesi si riunivano per discutere a proposito delle questioni sopracitate, nelle strade sono cominciate proteste e manifestazioni capeggiate soprattutto da attivisti per l’ambiente. Fra questi non è rimasta inosservata la presenza di numerose persone indigene e africane. La preoccupazione dei popoli appartenenti ai paesi in via di sviluppo è principalmente legata allo sfruttamento dei loro territori che si stanno lentamente (anche se non poi così troppo) degradando a causa sì di cambiamenti climatici, che però sono provocati dall’azione dell’uomo.
Tutt’oggi il problema principale resta la deforestazione e di conseguenza la perdita di biodiversità che colpisce principalmente l’Asia, l’America Latina e l’Africa. Ecco perché gli abitanti di queste aree stanno chiedendo di essere ascoltati e presi in considerazione con crescente forza. In tempi recenti la presenza indigena nei congressi internazionali è sicuramente aumentata, ma resta comunque prevalente una logica che vede le potenze mondiali decidere il destino di comunità locali. Bisogna prendere in considerazione, inoltre, che gli effetti più devastanti e visibili del cambiamento climatico e della perdita di biodiversità si verificano proprio in quei paesi che contribuiscono in limitata parte all’ inquinamento, sfruttamento e disboscamento globali. Tra i principali risultati emersi dal report “Valutazione delle Risorse Forestali Mondiali” (Global Forest Resources Assessment 2020), pubblicato nel 2020 dalla FAO, emergono in particolare due aspetti: il primo è che dal 1990 la superficie forestale mondiale si è ridotta di 178 milioni di ettari e il secondo è che negli ultimi dieci anni la superficie forestale è aumentata in Asia, Oceania ed Europa, mentre il tasso più alto di deforestazione netta è stato registrato in Africa e in America Latina. Questo è uno dei principali motivi per cui i popoli indigeni cercano disperatamente di far ascoltare la loro voce che resta schiacciata dal business delle grandi aziende impegnate ad estrarre e sfruttare le risorse dei territori rurali. Nel report di FOCSIV del 2020 a proposito del land grabbing, ovvero dell’accaparramento di terre agricole da parte di grandi aziende a discapito delle comunità locali, viene descritto un caso studio sull’estrazione petrolifera in Ecuador. Nel caso specifico due società cinesi, in partnership con una società locale ecuadoriana, a partire dal 2009 hanno espropriato le terre delle popolazioni indigene dei Sapara e dei Kichwa di Sarayaku per usarle come territori di esplorazione e trivellazioni. Nonostante la resistenza indigena abbia impedito in questo caso un’espansione distruttiva verso altri terreni, resta comunque sempre presente la minaccia di aziende esterne che investono nell’estrazione o nel disboscamento di molte terre indigene con l’aiuto dello Stato.
Un’altra preoccupazione che spinge i popoli indigeni a lottare per prendere parte alle decisioni sulla lotta al cambiamento climatico è l’aumento della costruzione di aree protette nei territori in cui vivono. A primo impatto, questo tipo di progetto, che mira a tutelare la biodiversità degli ecosistemi, potrebbe sembrare positivo. In realtà lo è solo parzialmente proprio perché la gestione delle foreste protette è solo in minima parte affidato alla conoscenza indigena. Secondo il database UNEP-WCMC Protected Planet, in America Latina e nei Caraibi ci sono attualmente 10.016 aree protette ma solo 1301 del totale forniscono o hanno fornito valutazioni efficaci sulla loro organizzazione e sul loro mantenimento. Inoltre il 60% della gestione delle aree protette è affidata a organi federali o statali e solo il 7% è riservato alle popolazioni indigene. Questa situazione dimostra che il sapere indigeno è molto spesso non preso in considerazione e il parziale controllo delle aree protette lascia spazio a prevaricazioni e a un mancato rispetto dei territori e delle leggi che lo tutelano.
Come si osserva dall’immagine qui sotto, sono proprio l’America Latina e l’Africa le due regioni in cui si registra il più alto tasso di foreste in aree protette. Non prendere in considerazione la conoscenza indigena della terra significherebbe rinunciare a una grande opportunità per imparare pratiche ancestrali legate all’agricoltura e all’utilizzo delle piante e delle risorse della Madre Terra (anche chiamata Pachamama dagli Inca e da altri popoli dell’area andina).
Negli ultimi anni, non solo alla COP26, moltə attivistə hanno preso parte alla lotta al cambiamento climatico e si sono battutə per i loro diritti e le loro terre. Purtroppo molte di queste persone hanno perso la vita e l’anno 2020 è stato il peggiore dal punto di vista della quantità di vittime. Come è possibile leggere sul sito dell’Osservatorio dei diritti, il bilancio di fine 2021 è altrettanto negativo: sono state ben 211 le vittime tra coloro che si sono battuti per i diritti ambientali, un numero purtroppo ancora molto alto e di cui circa un terzo apparteneva a un popolo indigeno. Fra le tante vittime nel corso degli anni viene spesso ricordato il nome dell’attivista honduregna Berta Cáceres, diventata un esempio di lotta e forza indigena, uccisa nella sua casa in Honduras il 3 marzo 2016. La sua morte ha dato il via a numerose proteste internazionali e ha fatto luce sulle ingiustizie e violenze subite da uomini e donne indigene in America Latina.
Fintanto che le minoranze del pianeta (la popolazione indigena mondiale rappresenta circa il 6%) non saranno ascoltate; fintanto che la loro conoscenza della terra e di uno sviluppo naturalmente più sostenibile, perché legato intrinsecamente alle risorse e all’equilibrio della terra, non verrà preso in considerazione; e fintanto che i leader politici si riuniranno a discutere insieme in occasione di grandi conferenze senza però rivoluzionare profondamente il sistema attuale, basato sullo sfruttamento delle risorse e delle persone, non riusciremo a raggiungere gran parte degli obiettivi dell’Agenda 2030.