“Quando arrivai qua non c’era nulla, nel 1982 c’erano solo 5 case localizzate nel tratto tra la casa São José sino a dove oggi si trova la mia casa, che all’epoca era la quinta casa. Qui era tutto bosco, io stessa feci il mio “baracchino” nel mezzo della boscaglia. Per alcuni anni abbiamo abitato qui quasi da soli senza vicini. […] Abitavano qui solo Dona T., una donna chiamata Z., e Dona H. Loro abitavano in quell’area che va dal mercado Machado a qua. Quando arrivai Dona T. mi disse ‘fai una casetta per te qua’, (al lato della sua), e allora io decisi di farla lì. Da quel momento nella Serrinha sono arrivate moltissime persone”.
Dona C. – abitante della Serrinha, Favela di Florianopolis, Brasile (Intervista per Tesi di Laurea “RE-THINKING THE EDGE Sustainable redevelopment of Serrinha, Favela in Florianopolis (Brazil)”, Chiara Moretti, 2016).
Al giorno d’oggi, nella maggior parte delle città di ogni parte del mondo esistono numerose forme di urbanizzazione che condividono il medesimo spazio fisico. In questo quadro emergono le due facce della città: quella della città statica e quella della città cinetica, due realtà che coesistono e convivono e che sono strettamente legate a dinamiche sociali ed economiche. Per molto tempo la città statica ha aspirato e tentato di dare un ordine, di demolire o di allontanare quella cinetica, ma il continuo processo di divenire di tale realtà ha decretato il fallimento di questo approccio. La relazione che intercorre tra le due città è infatti un concetto molto complesso che va ben oltre le differenze fisiche immediate. Ma cosa s’intende precisamente per città cinetica e statica?
Quando si parla di città statica, si fa riferimento ad un tessuto urbano la cui natura deriva da logiche e indirizzi normativi che seguono principi ufficiali e precisi. Quando invece si parla di città cinetica o informale, si parla di una realtà che appare come un flusso dinamico, un fenomeno urbano, sociale e economico in continuo movimento e in progressivo sviluppo, e che si reinventa costantemente. La realtà informale modella, occupa e genera lo spazio secondo regole non scritte, governate da un’autorganizzazione e quindi da processi del tutto spontanei. Un agglomerato informale è infatti un insediamento contiguo in cui gli abitanti vivono in alloggi insicuri e con servizi di base inadeguati. Si definisce anche slum e spesso non è riconosciuto e trattato come parte integrante della città dalle autorità pubbliche.
Nello studio, The Challenge of Slums, UN-Habitat ha affermato che “l’immensità della sfida posta dagli slum è chiara e scoraggiante. Senza un’azione seria e coordinata da parte delle autorità municipali, dei governi nazionali, degli attori della società civile e della comunità internazionale, il numero degli abitanti delle baraccopoli è destinato ad aumentare nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo”. In seguito a questo rapporto la questione degli slum è stata ripresa da ricercatori e giornalisti, pubblicando numerosi resoconti delle terribili condizioni di vita negli insediamenti informali. Stime recenti fornite da UN-Habitat mostrano infatti che la proporzione della popolazione urbana che vive nei quartieri poveri del mondo in via di sviluppo è diminuita dal 46,2% nel 1990 al 29,7% nel 2014. Tuttavia, le stime mostrano anche che il numero di abitanti delle baraccopoli è in aumento: oltre 880 milioni di persone vivevano negli slum nel 2014, rispetto ai 689 milioni nel 1990. Ciò implica che c’è ancora molta strada da fare per ridurre il grande divario tra gli abitanti degli slum e il resto della popolazione urbana che vive in un alloggio adeguato con accesso ai servizi di base. Promuovere l’accesso universale ai servizi di base dovrebbe chiaramente essere una delle pietre miliari della nuova Agenda Urbana.
Ma il concetto di slum è più complesso e si inserisce in un quadro che racchiude una gamma eterogenea di situazioni informali: povertà ed esclusione stanno alla base della formazione di queste realtà divenendone causa principale e al tempo stesso conseguenza diretta. La mancanza di una rete infrastrutturale polivalente di servizi di base nega alle comunità alcuni dei diritti fondamentali per ogni essere umano, come il diritto alla salute e all’istruzione. Il sovraffollamento e la scarsa qualità del costruito comporta una grande precarietà di questi insediamenti che diventano luoghi insicuri caratterizzati da edifici realizzati senza tecniche costruttive e con materiali di scarto, privi di una rete fognaria e di un ciclo di smaltimento di rifiuti.
Una delle maggiori sfide per le città e per il miliardo di abitanti che vivono in insediamenti informali è come costruire la resilienza e l’adattamento al cambiamento climatico. Come affermano i principali climatologi del mondo dell’IPCC nel Second Assessment Report on Climate Change and Cities, il cambiamento climatico avrà un impatto negativo sulle persone che vivono in insediamenti informali portando danni alle case, alle imprese e alle infrastrutture: interruzione dei mezzi di sussistenza e sicurezza alimentare, riduzione della sicurezza, aumento dei prezzi del cibo, dell’acqua e dell’energia e aumento delle malattie e della mortalità. Le comunità residenti negli insediamenti informali infatti sono più vulnerabili a causa della loro ubicazione in aree a rischio caratterizzate da infrastrutture precarie carenti dei servizi di base e autocostruite, accompagnate quindi da una povertà di conoscenza in materia di tecnologie costruttive che gravano sulla stabilità e la qualità del costruito. Diventa quindi indispensabile lo studio della genesi e della trasformazione di questi insediamenti intesi come veri e propri fenomeni in rapido mutamento nel tempo, indirizzando questa metamorfosi verso modelli insediativi sostenibili.