Nel precedente articolo abbiamo capito perché il cambiamento climatico non è uguale per tutti. A partire da questo concetto è possibile analizzare diverse conseguenze ma ce n’è una che spicca sulle altre: le persone che, a seguito di disastri ambientali, sono costrette a lasciare il proprio paese e la propria casa.
Nella storia si hanno testimonianze antiche di migrazioni come risposta allo stress climatico. Ad esempio, le società di pastori migranti che si spostavano a seguito di inondazioni e siccità, o la popolazione islamica dell’ottavo secolo, che si è espansa nel Mediterraneo e nel sud est europeo anche a causa di siccità nel Medio Oriente.
Con il passare degli anni, le condizioni climatiche sono peggiorate e questi spostamenti sono aumentati. Nel 2019, in 140 paesi si sono spostate 24,9 milioni di persone e si prevede un aumento entro il 2050 con una media annua di 200 milioni di persone.
Le cause di questo fenomeno sono identificabili negli eventi meteorologici estremi, come forti piogge, siccità, ondate di calore, tempeste tropicali ed anche eventi come l’innalzamento del livello dei mari, inondazioni, incendi, erosione e desertificazione. Esistono anche fattori non direttamente dipendenti dagli eventi climatici che guidano questi spostamenti, come le politiche governative, la crescita della popolazione e la resistenza della società ai disastri naturali. Per questo molte persone si trovano costrette ad abbandonare le loro case, spesso senza fare mai più ritorno, alla ricerca di luoghi in cui condurre una vita più dignitosa.
Nel 2016 il tema degli spostamenti di massa legati alla crisi climatica è stato argomento di discussione nell’Accordo di Parigi sul clima. In questa occasione il cambiamento climatico è stato identificato ufficialmente come causa degli spostamenti delle persone dall’Africa sub-Sahariana in Europa, così come quelli dall’America Centrale negli Stati Uniti.
A rendere ancora più complessa e difficile la situazione si aggiunge quello che, all’apparenza, può sembrare solo un problema semantico ma che, in realtà, rappresenta un problema giuridico e legislativo importante.
Non è ancora definito se queste persone siano identificati come “rifugiati climatici” o “migranti climatici”. Il termine “rifugiato” comporta un’accezione positiva che stimola empatia nelle persone, implicando un senso di obbligo nello spostamento. Il termine “migrante” invece, implica una volontà spontanea al movimento e comporta una connotazione più negativa. A questa differente percezione sociale, si aggiunge un problema legislativo.
La maggior parte delle persone che fuggono si spostano entro i limiti del proprio paese. Per la Convenzione sui rifugiati del 1951 delle Nazioni Unite, il rifugiato è identificato come colui che abbandona il proprio paese a causa di persecuzioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad uno specifico gruppo sociale o per opinione politica. Inoltre, tale concetto implica il diritto di ritorno nel proprio paese una volta che le persecuzioni sono terminate. Al contrario, nel caso di persone che scappano da un disastro ambientale, il ritorno nel proprio paese risulta difficile se non impossibile.
Nonostante ci sia molta resistenza all’idea di espandere il termine “rifugiato politico” anche ai rifugiati climatici, esistono realtà come la Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) e la Dichiarazione di Cartagena che prevedono criteri più ampi per riconoscere lo status di rifugiato, inserendo nella definizione anche coloro che fuggono da circostanze che turbano gravemente l’ordine pubblico.
Come conseguenza di questa mancanza di chiarezza, queste persone risultano invisibili agli occhi del sistema internazionale mondiale. Sono prive di dimora e non hanno un’istituzione a cui fare riferimento in materia di tutele e riconoscimenti, raccolta dati o fruizione di assistenza umanitaria di base.
Sebbene esistano delle ipotesi su come potrebbero cambiare questi spostamenti nel futuro, risulta complesso fare delle previsioni sicure su quante persone saranno colpite dai disastri ambientali e saranno costrette ad emigrare. Per questo motivo, come dice Filippo Grandi, High Commissioner per i Rifugiati delle Nazioni Unite, c’è la necessità di investire adesso per prevenire i futuri movimenti dovuti al clima e per prepararci ad affrontare gli aiuti umanitari di cui ci sarà bisogno. “Aspettare che i disastri ci colpiscano, non è un’opzione.”
FONTI
file:///C:/Users/utente/Downloads/5866.pdf
https://www.migrationpolicy.org/article/climate-impacts-drivers-migration